Leggermente mosso

Breve storia di un ritratto fotografico di strada che è fortunatamente sopravvissuto al Pixel Peeping e mi ha aspettato pazientemente in un hard disk per anni. 

Tra le strette vie del centro la luce comincia già a scarseggiare, ma sono ancora in giro a fare foto, quando fermo questo ragazzo e gli chiedo di posare per uno scatto. Appare irrequieto e mi dice che va di fretta, ma accetta. È un attimo: un trentesimo di secondo per la precisione, troppo per la mia mano; la foto viene mossa. Dopo qualche giorno trovo finalmente una mezz’ora per scorrerla a monitor assieme alle altre scattate quella sera, la guardo per alcuni secondi, mi attrae, ma il fatto che sia mossa mi impedisce di andare oltre, mi sbarra l’accesso, il mio sguardo rimbalza fuori dall’immagine. Ciò nonostante sento che c’è qualcosa di interessante celato in quell’immagine e decido comunque di non cancellarla. È riapparsa a distanza di anni, per caso, davanti ai miei occhi e solo allora sono riuscito a trovare il varco ed entrare. Mi sono preso il tempo per esplorarla, sorseggiando una tazza di tè fumante, in silenzio. Poi l’ho stampata, e mi sono accomodato in poltrona con la foto tra le mani, continuando ad abbracciarla con lo sguardo, e finalmente poi l’ho compresa. Sono felice di aver resistito al frettoloso iniziale impulso di cestinarla. Non vi sto a dire cosa ci trovo in questa foto, la mia esperienza è comunque soggettiva e non rilevante ai fini della storia, la cui morale è al contrario meritevole di essere condivisa.

a street portrait of a young man

Pur essendo un oggetto bidimensionale, una fotografia contiene una terza dimensione: il tempo. Il nostro apparato visivo ne fa esperienza attraverso tutta una miriade di movimenti oculari, per lo più impercettibili, tesi ad esplorare e così a comprendere l’immagine.

Già lo sosteneva il fisiologo Yarbus negli anni 60 e oggi lo sa bene chi si occupa di marketing e può avvalersi di sofisticati strumenti di “eye tracking” per affinare i layout delle proprie campagne pubblicitarie. Tali movimenti riflettono i processi del nostro pensiero di fronte ad una data immagine, in un certo lasso di tempo. Il tempo è quindi un fattore determinante nella fruizione di una imagine, al pari del contesto in cui ne facciamo esperienza, della cultura visiva che abbiamo e della nostra particolare predisposizione mentale in quel momento. Quella in cui viviamo è un’epoca estremamente veloce ed il tempo che dedichiamo la consumo delle immagini pare inversamente proporzionale al numero sempre più esorbitante di quelle che ciascuno di noi produce quotidianamente; si stima che ogni anno vengano scattate più di un 1 trilione di foto e miliardi di esse vengono condivise online.

Secondo un recente studio, i visitatori del Metropolitan Museum di New York trascorrono in media meno di trenta secondi davanti ad un’opera, prima di passare oltre. È evidente che questa bulimia di immagini, di cui tutti più o meno siamo affetti, se da un lato ci spinge ad un consumo sempre più frenetico delle stesse, dall’altro, inevitabilmente, ci porta ad un approccio estremamente superficiale all’immagine in senso lato; un approccio spesso basato su criteri esclusivamente formali, legati magari a canoni imposti dalla moda del momento, prepotentemente veicolati attraverso l’incessante bombardamento da parte dei canali mainstream, ma privi di validi riferimenti culturali. Finiamo così per preferire semplicemente le immagini che ci sono più consuete, che risultano quindi più facili da decifrare, più comode; ci ritroviamo con un apparato visivo viziato da un’estetica “precotta” e sostanzialmente sempre più atrofizzato. Nel 1986, in risposta al dilagare del fast food e delle abitudini frenetiche -non solo alimentari- della vita moderna, nacque il movimento culturale “Slow Food”. Torno a chiedermi se oggi non sarebbe più che mai opportuno istituire una sorta di “Slow Image”.